Internet of “Things Made in Italy”

Gli oggetti mutano i comportamenti individuali e sociali, entrano nella routine dei consumatori e delle imprese. Dal grammofono, passando per il Walkman di Sony giungendo all’iPod di Apple nel mondo della musica; dalla P101 della Olivetti, passando per il PC di IBM giungendo al Macbook di Apple nel mondo dei computer; gli esempi di oggetti che hanno sconvolto il modo di vivere delle persone sono veramente tanti e toccano tutti i settori.

L’internet delle cose (IoT o Internet of Things) fa riferimento al valore degli oggetti dovuto al loro design e alla loro capacità di contenere conoscenza. In questi oggetti, il mondo elettronico traccia una mappa di quello reale, dando un’identità elettronica alle cose e ai luoghi dell’ambiente fisico: si tratta di una sorta di estensione di internet al mondo degli oggetti e dei luoghi concreti. Lo spazio per applicazioni sperimentali ed embrionali nel contesto dell’Internet of Things in Italia è enorme e se ne è parlato lo scorso 13 luglio all’incontro dal nome “Le nuove opportunità dell’Internet of Things” organizzato da H-Farm, il venture incubator che si occupa di innovazioni applicate alle imprese nel loro percorso di trasformazione digitale. H-Farm ha da poco sancito una collaborazione con STMicroelectronics, leader globale nei semiconduttori, con lo scopo di accelerare il naturale processo di innovazione delle aziende eccellenti del Made in Italy. Pietro Palella, amministratore delegato di STMicroelectronics è intervenuto assieme a Luca de Biase, editor di Nòva24 de Il Sole 24 Ore, per confrontarsi sui nuovi scenari e sulle nuove opportunità offerte dall’IoT in Italia.

“Bisogna vedere qualcosa che non c’è per costruirlo”. Così Pietro Palella apre l’incontro introducendo il tema dell’internet delle cose. Si tratta di un mercato che non è ancora formato, ma di cui si incominciano a intravedere prospettive interessanti anche per le PMI italiane. In passato le ondate innovative erano dovute per lo più a grandi attori dell’elettronica. Le cosiddette “disruptive innovation” erano appannaggio di colossi come Intel, IBM, Microsoft e dei loro centri di ricerca. Oggigiorno le nuove ondate innovative coinvolgono attori più piccoli che grazie a tecnologie avanzate sempre più accessibili, possono partecipare attivamente ai grandi cambiamenti innovativi, ritagliandosi nuove fette di mercato. Le tecnologie esistono e sono accessibili, ma da sole non sono soluzioni. Servono idee e mercati che portino queste tecnologie ad essere applicate nel mondo reale: ci vuole un incontro tra la tecnologia e le applicazioni funzionali che la tecnologia può avere e per questo sono necessarie forti dosi di creatività.

Le vie sono molte e le opportunità per generare competenze e trovare soluzioni sono svariate, ma una strada può essere quella battuta da H-Farm che oltre a creare partnership con imprese innovative, organizza periodicamente eventi hackathon che mettono in contatto giovani creativi del mondo digitale con aziende del food, del retail, del living e dell’automotive.

Noi metteremo a disposizione i nostri servizi di integrazione per lo sviluppo dei progetti e le nostre strutture formative, per creare un ponte fra settori industriali diversi e far comunicare anche chi non ha competenze nell’elettronica, ma ha aspettative sulle capacità innovative dei più recenti dispositivi elettronici come i microprocessori, i controlli motore e comunicazione a bassissimo consumo, i sensori di movimento e ambientali, i microfoni miniaturizzati”

– Collaborazione tra H-Farm e STMicroelectronics

Si tratta di una grandissima opportunità per l’Italia. Nonostante le possibili applicazioni e i possibili mercati non siano del tutto delineati, l’Italia ha importanti distretti manifatturieri che producono beni di qualità che vengono esportati in tutto il mondo e che potrebbero rifiorire se abbinati alla tecnologia elettronica e a quella digitale. Il vantaggio dell’Italia nell’IoT è la possibilità di avere gente che sa fare bene oggetti che sono richiesti da tutto il mondo. Giusto per fare un esempio, prodotti innovativi come Google Glass non vedrebbero la luce senza il know-how del distretto bellunese dell’occhiale.

Storicamente l’Italia ha avuto difficoltà nello sfruttare il nuovo paradigma tecnologico basato sull’informatica e su internet. Difficoltà legate alle peculiarità strutturali del nostro sistema economico: le imprese sono piccole, spesso sono a gestione familiare, i servizi sono inefficienti e la manodopera è poco qualificata. Un indicatore sintetico del grado di innovatività e della capacità di un sistema economico di usare con beneficio le nuove tecnologie è rappresentato dalla produttività totale dei fattori. In Italia, questo indicatore, dal 1995 al 2000, ha una crescita minore rispetto a molti altri paesi e precipita verso tassi di crescita negativi dal 2000 al 2010 (un evento rarissimo in tempi di pace per un paese sviluppato).

Fortunatamente l’Italia si distingue da altri paesi avanzati per l’elevato peso della manifattura. Si tratta di una caratteristica positiva perché l’industria manifatturiera è il settore votato ad esportare per eccellenza; è il settore che genera buona parte dell’attività innovativa e che dà lavoro a personale specializzato così come a lavoratori a bassa qualificazione. Altro tratto essenziale dell’economia italiana è la sua apertura agli scambi internazionali con un rapporto tra valore complessivo delle esportazioni e PIL che oscilla attorno al 25% (ai livelli di Francia e Gran Bretagna) e con la quota italiana sull’export mondiale che si aggira attorno al 4%. Le competenze e la vocazione internazionale ci sono, manca solo il connubio con la tecnologia. Nelle “5A” (Arte, Automazione, Arredamento, Abbigliamento, Alimentazione) l’Italia è leader mondiale indiscusso. Tuttavia per mantenere il proprio vantaggio competitivo è necessario rigenerarsi, talvolta percorrendo vie che non erano mai state battute. Citando Steve Jobs: “I consumatori non sanno cosa vogliono, finché noi non glielo mostriamo”. Sono le imprese che con la loro creatività e con nuove idee possono percorrere nuove vie e indirizzare il mercato educando i consumatori.

Oggetti e tecnologie esistono, bisogna unirli per formare nuovi “ecosistemi” fatti di imprese e di “connettori” finanziari e culturali che conoscono le nuove tecnologie e sanno coglierne le opportunità. Creare un ecosistema italiano permetterebbe inoltre di sfruttare la vicinanza geografica dei distretti, che rende i processi più veloci ed efficienti, applicando processi di vertical innovation, ovvero di integrazione verticale unita a open innovation.

Un problema che sorge nel momento in cui nuove tecnologie si integrano con beni durevoli in settori come l’arredamento, l’abbigliamento o l’arte, è il fatto che molte innovazioni cadono velocemente in disuso. Un oggetto di pregio come un tavolo antico o un fucile da caccia che viene tramandato di generazione in generazione, potrebbe essere svilito dall’introduzione di nuove tecnologie al proprio interno: sensori e software potrebbero diventare obsoleti, facendo perdere valore al prodotto. Si tratta di uno dei rischi legati all’investimento in progetti innovativi: bisogna rendere la tecnologia rinnovabile senza svilire oggetti di pregio e bisogna educare i consumatori in un mercato ancora in via di definizione. Tuttavia i rischi nel non cogliere questa grande opportunità sono ancora più grandi. L’Italia ha sì dei vantaggi, ma i concorrenti al di fuori del Bel Paese sono tanti e ben attrezzati.

Luca Manisera