Perché il soluzionismo non è sempre la soluzione migliore

Hackathon

Se non siete a conoscenza del termine hackathon, non sentitevi in difetto. Si tratta infatti di una parola che benché sia apparsa nel mondo digitale oltre 15 anni fa, ha cominciato a diffondersi in modo massiccio solamente negli ultimi anni. Hackathon è un neologismo sincratico formato dalle parole hack (trovare soluzioni creative) e marathon (maratona) che in origine definiva degli incontri informali dedicati a sessioni intense di problem-solving nel mondo della tecnologia digitale. Oggigiorno gli hackathon sono veri e propri eventi strutturati che spaziano in diversi ambiti e non sono più appannaggio esclusivo di programmatori e informatici. Sempre più imprese e venture capitalist partecipano attivamente all’organizzazione di tali eventi considerandoli un modo di creare con velocità ed efficacia nuovi software e soluzioni digitali innovative.

In Italia questo tipo di formato non è attualmente molto diffuso e gli eventi hackathon sono concentrati per lo più al Nord. Come è possibile osservare dall’infografica del report sull’ecosistema italiano dell’innovazione nel 2014 stilato da Italia Startup, in Veneto si concentrano buona parte di questi eventi. Lo scorso mese ho avuto l’occasione di partecipare a Hack-Travel, un evento hackathon di 24 ore no stop incentrato sulle tematiche del turismo, dove diverse istituzioni e aziende (Regione Lombardia, Nozio, Star Hotels e Gruppo Save) hanno messo alla prova giovani provenienti da tutta Italia proponendo loro diversi brief, ovvero linee guida relative a problematiche a cui le aziende non avevano ancora trovato risposta.  

Come in ogni hackathon, i ragazzi si sono divisi in gruppi e poco dopo l’inizio dell’evento erano già al lavoro, chini sui propri portatili. Aggirandomi fra i diversi gruppetti, potevo cogliere ovunque la concentrazione e la determinazione dei partecipanti. Tuttavia, nonostante l’entusiasmo palpabile, non riuscivo a smettere di chiedermi a cosa servisse effettivamente questo genere di eventi, chi ne avrebbe tratto vantaggio e se era veramente possibile sviluppare progetti utili in sole 24 ore.

Soluzionismo

L’idea che qualsiasi problema, anche di natura complessa, possa sempre avere una soluzione efficace, veloce ed elegante, magari in formato digitale, è sempre più diffusa. Qualcuno ha bisogno di un esame di coscienza per prepararsi al meglio al sacramento della confessione? C’è un’app per questo. Qualcun altro sente la necessità di dover chiacchierare appena sveglio ma nessuno è disposto a farlo con lui? C’è un’app per questo. Serve una mano per ottenere un sano equilibrio vita-lavoro? C’è un’app anche per questo.

Evgeny Morozov, sociologo e giornalista bielorusso esperto di nuovi media, definisce questo fenomeno come l’avvento del soluzionismo. Il soluzionismo può essere considerato come la ricerca di una soluzione rapida ad un problema prima ancora che questo venga investigato appieno, senza che vi sia una profonda contemplazione delle origini e delle cause del problema e senza una ponderata valutazione degli effetti e delle conseguenze della presunta soluzione. Il soluzionismo è frutto di una visione internet-centristica per la quale i paradigmi che hanno permesso a colossi del mondo digitale di trovare soluzioni efficienti nel proprio settore, vengono applicati in un più ampio raggio d’azione, in contesti che richiederebbero un’analisi più approfondita. Cercando di argomentare per assurdo, citando un esempio riportato in un articolo di Ayesha Khanna pubblicato su slate.com, sarebbe possibile trovare una soluzione al problema legato al decoro pubblico causato dai senzatetto, semplicemente utilizzando la deletive reality, che permette di eliminare oggetti dal proprio campo visivo attraverso una tecnologia simile alla realtà aumentata: utilizzando i famosi Google Glasses o in alternativa lenti a contatto bioniche, “se i pedoni a New York o a Mumbai non vogliono vedere i senzatetto, possono eliminarli dal proprio campo visivo in tempo reale”. Attenendoci alla volontà di trovare una soluzione pratica, immediata ed elegante al problema del decoro pubblico, questa potrebbe sembrare una soluzione geniale. Inutile argomentare come la tecnologia, in questo caso, non sia sufficiente a risolvere il problema dei senzatetto, ma possa anzi avere, a causa del suo approccio talvolta superficiale, ripercussioni negative sulla società.

Slacktivismo

Uno dei motivi per cui il soluzionismo risulta non solo inadeguato a risolvere alcuni problemi, ma a tratti fastidioso, è la “retorica del nuovo ottimismo” che lo accompagna. Si tratta della retorica del “vogliamo rendere il mondo un posto migliore” che non è altro che la summa di una forma di autocompiacimento riassumibile nel concetto di slacktivism, altro neologismo sincratico (anche il linguaggio sembra aver subito una sorta di hack, come Morozov sostiene all’inizio di questo interminabile articolo) formato dalle parole slacker (scansafatiche) e activism (attivismo), che suggerisce il supporto per una data causa con il solo risultato di procurare beneficio all’ego dell’individuo che partecipa in questa cosiddetta forma di attivismo. Tra le forme più diffuse di “slacktivismo”, che per l’appunto evita azioni sostanziali a favore di azioni che richiedono uno sforzo minimo da parte dello “slacktivista”, sono da annoverare le petizioni online e il supporto di varie cause per mezzo di share e like. Non è un caso che lo slacktivismo e la retorica del “vogliamo rendere il mondo un posto migliore” attecchiscano in social network come facebook, il cui fondatore Mark Zuckerberg ha affermato: “Al mondo c’è una moltitudine di problemi da risolvere e quello che cerchiamo di fare come impresa è costruire un’infrastruttura attraverso la quale possiamo risolvere alcuni di questi problemi. Non ci svegliamo al mattino con l’obiettivo primario di fare soldi”. Per quanto risultino buone queste intenzioni, risulta difficile credere che l’obiettivo primario di facebook non sia il profitto.

Quando colossi del mondo digitale affermano che il mondo è alla deriva e deve essere aggiustato, forse dovremmo domandarci se il mondo è effettivamente guasto nel modo che loro ci raccontano. Forse l’imperfezione del mondo, l’incoerenza e anche la smemoratezza sono caratteristiche fondamentali che ci permettono di essere gli attori sociali complessi e critici che siamo, che riescono a risolvere dei problemi senza seguire necessariamente la logica dell’immediatezza e del profitto o talvolta senza seguire logica alcuna.

In sintesi

Tornato a casa dall’hackathon in Veneto, ho cercato di fare il punto sulla miriade di pensieri sopracitati e ho ripensato alle parole di David Sasaki, tech blogger e giudice in svariati eventi hackathon, che valutando diverse idee nate durante tali eventi, afferma di non riuscire a ricordare una singola “civic” app (un’applicazione col fine di aiutare lo sviluppo della società o di comunità locali) che usa frequentemente, mentre può elencare innumerevoli app a scopo commerciale. Una spiegazione potrebbe essere che gli eventi hackathon sono diretta espressione del soluzionismo, in quanto eventi dove i problemi sono considerati tali sulla base di un unico criterio: se possono essere risolti con soluzioni tecnologiche efficaci e pulite. Conseguentemente gli eventi hackathon possono essere utili nello sviluppo di idee brillanti e soluzioni geniali per specifici problemi (molto spesso di natura tecnica e commerciale), ma non possono essere considerati il mezzo con cui possono essere risolti problemi di ordine sociale maggiormente complessi: generalmente mancano le competenze ed il tempo.

Il soluzionismo non può essere considerato la panacea a tutti i mali del mondo e la retorica che molto spesso lo accompagna serve quasi esclusivamente a tenere alto il morale all’interno dell’ambiente tech e a mantenere un’immagine di missione sociale all’esterno. Capita sovente che in situazioni in cui ci sono problemi sociali complessi da risolvere, il soluzionismo offra solamente scorciatoie illusorie, quando in alcuni casi, come quello citato precedentemente relativo ai senzatetto, la soluzione migliore non è nè la più immediata, nè in formato digitale: più probabilmente sarebbero necessarie misure politiche ponderate e ci sarebbe bisogno di rimboccarsi le maniche e fare il lavoro sporco sulla strada.

Detto questo, bisogna riconoscere che in buona parte dei casi, i partecipanti degli eventi hackathon non hanno velleità di risolvere chissà quali problemi sociali e gli eventi sono mirati a risolvere problemi specifici in ambito tecnologico. Gli eventi hackathon e l’approccio soluzionistico che rappresentano sono utilissimi in diverse situazioni e presentano svariati vantaggi: le aziende trovano feedback e soluzioni ai propri problemi, aumentano l’esposizione del brand e possono trovare menti creative da assumere. Inoltre i partecipanti hanno l’opportunità di mettere in pratica le proprie competenze, conoscere nuove persone e passare un weekend interessantissimo in un ambiente vivace e formativo.

Bisognerebbe tuttavia incentivare la partecipazione a questi eventi con spirito critico senza cadere in facili entusiasmi. Il rischio dell’internet-centrismo è quello di enfatizzare questo unico approccio ai dilemmi del mondo ed incominciare a credere che veramente si possa risolvere la stragrande maggioranza dei problemi semplicemente con un’app. Le conseguenze di questa visione, possono essere la creazione di nuovi problemi di ordine sociale e, come ammonisce Morozov, la diffusione sempre più frequente di articoli dai “titoli soluzionistici” come “Africa? There’s an app for that”. Se fosse davvero così, qualcuno potrebbe gentilmente consigliare quest’applicazione alla Banca Mondiale?

Luca Manisera

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